Lo sguardo sul muro
architettura dei particolari e gusto dell'imperfezione

Autore/Author: Massimo Birindelli
Curatore / Curator: Ruggero Lenci



 

Ruggero Lenci

Questo libro, pubblicato postumo, che il Prof. Arch. Massimo
Birindelli finì di scrivere nel 1998, fornisce un’acutissima spiegazione
a una serie di particolari spesso inconsueti che i più attenti osservatori
di architetture antiche individuano nelle pietre dei monumenti in ambito
prevalentemente romano. Si occupa inoltre di ricostruire il dispositivo
compositivo, oggi spesso dimenticato, alla base di molte iscrizioni
che hanno luogo su tali fabbriche monumentali. Tutto ciò avviene con
un occhio colto e raffinato attraverso un percorso che, come indicato
nel sottotitolo, è attratto dal gusto dell’imperfezione.
Le modanature del portico d’Ottavia, tagliate di netto a delimitare
lateralmente la cartella con iscrizione severiana del rifacimento del
203 d.C. – illustrate anche in copertina – costituiscono l’oggetto dell’osservazione
iniziale. Nel taglio di quelle modanature viene individuato
un carattere di grande modernità appartenente a un periodo classico
consistente nell’affidare alla sezione di un elemento architettonico
il compito di incorniciare un’iscrizione. Questa e altre osservazioni, tra
le quali spiccano per interesse quelle su alcune modifiche operate sul
villino romano in via Aniene di Luigi Magni (p. 36-37, 40-41), sono
contenute nel primo dei tre capitoli del libro dal titolo intero, tagliato.
Ciò su cui in queste pagine Birindelli si interroga è come mai l’architettura
della sezione, il tagliato appunto, abbia generato un rifiuto.
Nel secondo capitolo, dal titolo iscrizioni, l’autore va alla ricerca
delle imperfezioni presenti nelle scritte di molte trabeazioni di edifici
ubicati in area romana, sia delle rarissime imperfezioni appartenenti
agli originali, perché un’insipienza sul piano formale è perfettamente
compatibile con una eccellente esecuzione materiale, sia delle tante
derivanti da sciatte operazioni di restauro. Anche il Letaurouilly commise
degli errori nel rilevare le iscrizioni di alcuni monumenti romani,
come dimostra il confronto con il frontone di Santa Caterina dei
Funari (p. 87). Ciò consente a Massimo Birindelli di sostenere che, in
questi casi, a essere in gioco non è l’occhio ma la mente, ovvero la
capacità di saper riconoscere ciò che si guarda in quanto se ne conoscono
le regole conformative. Queste osservazioni, che con estrema
lucidità rintracciano una lunga serie di errori perpetrati sui muri di
molte chiese e di altri monumenti, giungono a una chiara e significativa
sintesi (p. 96) lì dove viene riportata una parte della voce “scrittura”
tratta dall’Enciclopedia Universale dell’Arte: “(…) la scrittura è (…)
allineata al massimo livello dei principali stili artistici dominanti. E si
dà il caso che la veste figurativa delle parole finisca con l’essere ancor
più importante del loro significato testuale”. Ciò fa pensare che per
tale tipologia di errori invece che di “gusto dell’imperfezione”, da considerarsi
un eufemismo, si dovrebbe parlare di alterazione dell’immagine
di un’architettura che, a causa di ignoranze testuali, viene deformata
nel suo doppio ruolo estetico e storico-documentativo. Pertanto
ha pienamente ragione l’autore quando sostiene che applicarsi a un’antica
dicitura con l’incuria e le approssimazioni con cui le stesse cose si
fanno oggi è segno di grande insensibilità.
Il terzo capitolo, contraddizioni, illumina in maniera viva e brillante
un concetto noto che rischia di essere dimenticato, ovvero che in architettura
la presenza di una contraddizione non è necessariamente un fatto
negativo. Per dimostrare questo assunto Birindelli compie una ricerca
archeologica sulle più interessanti pietre che compongono gli edifici
romani, con testimonianze di irregolarità e sprezzature individuate sui
muri della chiesa di S. Caterina dei Funari, nel cortile della Sapienza, a
Palazzo Farnese, nel Palazzo Nuovo in Vaticano, all’Oratorio dei
Filippini e in altri monumenti romani. In particolare si interroga sul perché
molti capitelli su paraste non siano stati totalmente separati dall’originario
blocco di travertino (p. 122-123), o perché qualcosa di analogo
avvenga sopra le cimase dei pedimenti delle cornici di alcune finestre di
palazzi romani (p. 159). Tali modalità realizzative rivelano la presenza
di un’impressionante modernità nei costumi e nelle tradizioni degli
architetti, dei committenti e delle maestranze del tempo. Una disinvoltura
sicuramente derivante dal gusto per il non finito che vuole lasciare
traccia del blocco di pietra grezza, ma anche dell’applicazione delle
regole sulla percezione visiva, che consigliano di non dettagliare troppo
quelle pietre molto distanti dall’occhio, e inoltre dal fatto che l’esattezza
nei dettagli comporta l’insidia della meschinità, mentre nella grandezza
come nella ricchezza c’è sempre qualcosa di trascurato.
Lo stile di questa narrazione appartiene intimamente a Massimo
Birindelli. Vi si riconoscono i tratti di una ricerca forgiata sul gusto
dell’imperfezione, sull’idea del non finito, sulla preferenza per la serie
incompleta. Tutto ciò come autentici e intimi rimedi, per non cedere
all’appiattimento della compiacente banalità.
A volte in un progetto di architettura – sia nel caso di un’opera da
eseguirsi ex novo sia principalmente in un restauro – a lavori eseguiti
si può sentire la seguente critica: è troppo bello. Con ciò si vuole
intendere che il risultato finale è àfono, eccessivamente curato nei passaggi
formali tanto da renderne piatto il significato di fondo. Tutto ciò
che elimina la patina del tempo, quelle stratificazioni rivelatrici dei
caratteri di permanenza di un’opera, o anche solo dei passaggi significativi
di un’attività estemporanea non suscitava interesse in Birindelli.
La sua ricerca consisteva nel promuovere un vero dialogo tra passato,
presente e futuro. In perfetta sintonia con quanti della sua generazione
riuscivano a riconoscere nel suo operato – tra la composizione architettonica
e la storia – la genuinità di quel difficile e spesso scomodo compito
di scrupoloso osservatore che la condizione umana gli aveva così
generosamente e intransigentemente assegnato – rendendolo un maestro
nel separare il gusto per una moderata e contraddittoria imperfezione
dalla goffa e pericolosa ignoranza – egli riusciva a instaurare un aperto
dialogo sia con i suoi discenti sia con gli amici e colleghi di ogni età.
L’architettura era la sua disciplina prediletta, non fine a se stessa, ma
per scrutare le cose del mondo e, tramite esse, per capirlo meglio. Un
altro grande interesse lo aveva per la lettura diretta della condizione
umana da compiersi con il dialogo, con l’ascolto, senza passare per il filtro
dell’architettura. Spesso Massimo Birindelli soleva intercalare nelle
sue frasi la parola “manco”, forma orale da lui prediletta che utilizzava
al posto di “neanche”. Questo suo tratto linguistico era rivelatore di quel
gusto dell’imperfezione di cui il libro è così sapientemente pieno: ”Più
d’uno ha osservato che il signore (non solo italiano) ha spesso nel fare
– e anche nel corpo e nel viso – tratti contadini, e che di questo non si
dispiace. E anche quando la figlia del suo fattore avrà preso a parlare
in perfetto italiano, lui amerà continuare a servirsi di una lingua in cui
restano riconoscibili le inflessioni dialettali (…)” (p. 167).
Alcuni di questi tratti, di queste ecceità, vengono purtroppo oggi
sepolti sotto frettolose quanto miopi opere di cosmesi architettonica
che, ricoprendo tutto con la finzione formale di un grasso strato ciprioso,
finiscono per produrre la rassicurante banalizzazione della secolare
storia trascritta sulle pietre dei monumenti delle nostre città.
Ruggero Lenci